La via di Sankara

Le trasformazioni in corso in questa seconda decade del secondo millennio D.C nell’Africa dell’Ovest sono così difficili da normalizzare attraverso la narrazione tradizionale dei colpi di stato militari delle democrazie embrionali che, per risolvere il problema, semplicemente non se ne parla più.   

Potrebbero verificarsi alcune eccezioni nella giornata del 15 ottobre, data in cui si commemora non la morte ma l’uccisione di Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso tra il 1984 e il 1987, divenuto ‘santo’ laico dei movimenti di riappropriazione della dignità africana e panafricana, riferimento teorico e operativo dei processi di decolonizzazione e rilancio endogeno economico e sociale dell’Africa. 

Con un processo atteso per decenni condotto pur senza aver avuto pieno accesso a documenti secretati dal governo francese che ne ha infine promesso la declassificazione senza averla ancor oggi effettuata, nel 2021 è stato finalmente stabilito dal tribunale militare della capitale burkinabé Ouagadougou che il presidente rivoluzionario Sankara fu ucciso nel suo studio dal fuoco amico del suo compagno di rivoluzione Blaise Campaorè. Conosciuto nell’esercito durante gli anni della prima formazione militare, dal colpo di stato da lui coordinato ha potuto governare il paese con il favore della Francia fino al colpo di stato accompagnato da sollevazione popolare del 2014.

Il processo ha condannato Campaorè all’ergastolo, in contumacia, essendo da anni già in esilio in Costa d’Avorio.

Kissinger avvertiva che essere nemici degli Stati Uniti è molto pericoloso, ma che ancor di più lo l’esservi amici.

L’ebollizione del risentimento antifrancese che ha condotto al colpo di stato del 2014, e poi a quello del 2021 nel quale è stato rovesciato militarmente un altro presidente burkinabé gradito e sostenuto dalla Francia, Roch Kaboré, dimostra che anche godere del sostegno delle istituzioni centrali francesi non sia poi molto meno rischioso.

Sankara non morì dunque di ‘morte naturale’, come voleva la versione rimasta per anni quella ufficiale dei governi del Burkina Faso malgrado l’evidenza sul corpo dei colpi di arma da fuoco.

A meno che nell’espressione ‘morte naturale’ non si includa anche la naturale conseguenza di un atto di sfida al sistema del colonialismo imperialista e al suo strumento del  debito nazionale, ovvero il più grande meccanismo multilivello di messa in schiavitù dei popoli attuata con pianificazione e sistematicità aspirando a coprire progressivamente, iniziando dal terzo mondo (ma progredendo poi verso il secondo e anche il primo, come  vediamo ora molto bene) l’intero globo nell’arco di una manciata di generazioni con la complicità degli enti finanziari delle Nazioni Unite. 

Nel breve arco di anni della presidenza si accesero delle divergenze e ostilità tra Sankara e intellettuali interni al vasto movimento che aspirava alla liberazione del paese, formalmente decolonizzato ma di fatto sotto protettorato francese; e tensione si originò anche tra Sankara e l’ordine tradizionale costituito dalle autorità religiose, che egli vedeva come un insieme di istituzioni contrarie alla liberazione e alla presa di potere e responsabilità da parte del popolo.

Anche se abbondano le testimonianze di un’amicizia fortissima tra Sankara e Campaoré, che la famiglia di Thomas accolse come figlio adottivo, le differenze di indole e soprattutto visione politica tra i due esistevano e crebbero nel tempo. Secondo un’amica di Sankara (Germaine Pitroipa) Thomas aveva una profonda conoscenza del popolo burkinabé e una passione rivoluzionaria, mentre Blaise aveva il Rolex al polso, e le due cose le appariva chiaro che non potessero andare d’accordo. 

Più che nei programmi efficaci di trasformazione agricola secondo principi di agroecologia per aumentare e quasi saturare con produzione nazionale la risposta al fabbisogno alimentare, più che nella sistematica ricerca del miglioramento delle condizioni sociali ed economiche delle donne, e nella trasformazione del diritto per avvicinarsi alla pari opportunità nell’educazione, nel diritto di famiglia e nell’accesso alla terra, mettendo anche un argine alle mutilazioni genitali femminili; più che negli interventi di protezione dell’ambiente e rimboschimento (10milioni di alberi piantati in 15 mesi); è ragionevole identificare nel graffiante tono anticolonialista e nell’appello ad opporsi alla restituzione del debito estero lanciato da Sankara agli altri presidenti africani le occasioni che hanno accelerato l’urgenza da parte dei poteri imperialisti di neutralizzarlo.

Senza perdere tempo prezioso, già nel 4 ottobre 1984, dopo solo pochi mesi dal colpo di stato e dall’insediamento, Sankara pronunciò all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite un discorso infuocato di denuncia diretta dell’imperialismo economico, militare, ma anche culturale, linguistico e dell’immaginazione che divenne storico (qui il testo in italiano https://www.thomassankara.net/discorso-de-sankara-allonu-le-4-ottobre-1984/?lang=it

Qui l’audio originale https://www.jeuneafrique.com/43563/politique/burkina-faso-4-octobre-1984-le-discours-historique-de-sankara-l-onu/) 

Puntando il dito verso le grandi potenze coloniali, Sankara ricorda il doppio standard tra il principio di non ingerenza valido per alcuni paesi ma non verso il cosiddetto ‘terzo mondo’, per il quale rivendica il principio di autodeterminazione portando l’attenzione al paradosso della questione palestinese, dove vessazioni e uccisioni sono inflitte da quello stesso popolo che le ha subito durante la Shoah. Criticò anche gli aiuti allo sviluppo, considerati piuttosto un ostacolo ed un mezzo di sottomissione dei popoli progressivamente impoveriti, e indicò l’urgenza di riformare il principio del diritto di veto riservato a un club ristretto nell’insieme del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Quando nel 1986 il presidente francese François Mitterand visitò il Burkina Faso Sankara lo interrogò pubblicamente con questioni scomode, a cui Mitterand rispose paternalisticamente mostrando apprezzamento per un giovane esuberante ma esagerato, che “visto dall’alto della propria esperienza” rischia di spingersi troppo oltre il consentito.

“Non possiamo pagare il debito perché non siamo noi responsabili di questo debito”

Fu a fine luglio 1987 che Sankara pronunciò ad Addis Abeba all’assemblea dell’Organizzazione dell’Unione Africana un discorso audacissimo e molto difficilmente equivocabile contro il debito, (qui: https://www.youtube.com/watch?v=Mt2AlztQpV0)  in cui si accusavano le potenze imperialiste del primo mondo di aver orchestrato un sistema di sostegno basato sul prestito in valuta estera ai paesi poveri, che attraverso un sistema che garantisce supporto con gli assistenti tecnici (che Sankara ironicamente chiama “assassini tecnici”) vengono obbligati ad indebitarsi con un debito crescente.

Aveva ragione Sankara a paragonarsi ad un ciclista che si sforza al massimo possibile percorrendo un viottolo su un crinale in salita, con precipizi su entrambi i lati, e l’impossibilità fisica di fermarsi, pena la vita: per questo fece partire moltissime riforme e programmi su tutti i fronti, nell’ansia di scardinare sulla maggior area possibile gli ordini costituiti e vessatori, per consentire al popolo di respirare e imparare ad autoorganizzarsi.

L’impatto politico di questa esperienza e testimonianza è cresciuto negli anni anziché affievolirsi; i colpi di stato e le proteste che continuano a divampare in dall’inizio del nuovo decennio in Africa – Guinea, Mali, Burkina Faso, Niger, Gabon, con crescendo di tensioni in Senegal e in Madagascar – sono sostenuti da una combinazione di corpi militari e giovani militanti sovente dichiarati panafricanisti.

La crescente consapevolezza della inconsistenza della qualifica di democrazia in paesi di fatto sotto protettorato francese sembra accompagnarsi ad un senso di fiducia negli esiti della partecipazione della popolazione.

Un elemento sembra riproporsi  in tutti questi colpi di stato dell’esperienza di Sankara, ovvero la ricerca endogena di condizioni di governo autonomo e democratico, contrariamente a quanto sperimentato nella stagione dei due decenni precedenti di storia golpista.

La passione di Sankara per un programma di autonomia nazionale a 360° ma con un afflato internazionalista, si declina ora in tutti i paesi golpisti dell’Africa dell’ovest con l’insofferenza al regime estrattivo dell’economia guidata dalla Francia (in alcuni casi anche USA come in Niger), e l’ansia di stabilire nuove alleanze con paesi non tradizionalmente coloniali per partenariati per produrre energia, sviluppare industria e agricoltura, e per la strutturazione militare orientata al ripristino della sicurezza di fronte alle incursioni terroristiche, poco interessate a riforme strutturate dell’economia nazionale. Mentre il linguaggio golpista sembra ridurre le categorie marxiste, tuttavia partenariati strategici vengono stipulati proprio con Cina e Russia, pur con toni che interpretano la sovranità nazionale entro una prospettiva panafricanista. 

Certamente in Burkina Faso Sankara ha assunto ora un ruolo iconico e di riferimento per il governo golpista e la gioventù che lo sostiene.

A quasi due anni dal processo militare per ristabilire la verità storica sulla sua uccisione, il governo di transizione ha deciso di registrare questo spostamento di asse verso l’indipendenza dal dominio francese nella toponomastica urbana della capitale.

Finora le vie urbane aveva mantenuto pristina la nomenclatura esistente, assegnata masochisticamente e secondo proporzionalità urbanistica ai personaggi che maggiormente si erano distinti per massimizzare I benefici di azioni, programmi e guerre ai francesi. Invece qusta volta in Ouagadougo la giunta militare golpista ha deciso di rinominare il centralissimo ed enorme boulevard Charles de Gaulle intitolandolo a Thomas Sankara, a conferma della volontà di rinnovare il pantheon delle autorità di riferimento, passando dal dominatore al capitano del popolo. 

Va ricordato che la sindaca di Parigi nel 2021 (anno del processo sulla morte di Sankara) decise di dedicare al politico africano una via di Parigi. La via era in realtà una semplice vietta, piccola e oscura stradina privata, e l’azione fu (beffardamente almeno nell’effetto se non anche nell’intenzione) presentata come il segno di un omaggio al ‘san-to’ della decolonizzazione che agisce puntando a ripristinare dignità economica e integrità culturale del suo popolo.

Dal 15 ottobre 2023 l’imbarazzo sarà risolto: almeno negli onnipresenti taxi di Ouaga si riporrà nell’archivio quantomeno urbanistico il nome del generale C.de Gaulle, emblema storico e morale della Francia imperialista, e riecheggerà centinaia di volte al giorno il nome del capitano patriota che ribattezzò il paese con un’espressione della lingua burkinabé (sostituendolo al nome coloniale di Alto Volta), evocandone così la presenza viva quale ispiratore di uno dei filone contemporanei del movimento panafricanista.

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