Lettere di Aldo Moro #1
Lettera del 29 marzo 1978 a Francesco Cossiga
Questa è la prima lettera recapitata dalle Brigate Rosse durante la prigionia di Aldo Moro. Recapitata il 29 marzo 1978 insieme alla lettera indirizzata alla moglie, Eleonora, e a quella per il collaboratore Nicola Rana, mantenuta riservata. Fu diffusa dalle BR e pubblicata dalla stampa il 30 marzo.
“La percezione di quella prima lettera politica fu molto particolare, perché Moro si proponeva come mediatore tra le parti essendo le BR ostaggio del contesto in cui si erano venute a trovare con la scoperta della principale prigione che, secondo i piani previsti, avrebbe dovuto ospitare il «prigioniero» per almeno 6 mesi. Nicola Rana all’epoca dirige la segreteria politica del Presidente: «L’apertura di quella busta ci ridiede speranza. Moro aveva preso in mano la sua sorte. [La lettera] confermava che poteva esserci la possibilità di trattativa con le BR. La possibilità che tutto potesse concludersi in modo positivo». Quella prima lettera a Cossiga doveva rimanere segreta, ma le BR la diffondono per alzare la posta, viste le difficoltà in cui si trovano con la scoperta della prigione («Questo avrebbe significato una sconfitta completa» spiega Valerio Morucci, il BR che svolse, insieme ad Adriana Faranda, il ruolo di «postino»). La scelta della diffusione di quelle lettere è una necessità difensiva: «Sapevamo» ha raccontato sempre Morucci, che diffuse quel testo, «di avere pochissime capacità d’influire sul corso degli eventi, avevamo compreso in fretta che l’unico in grado di farlo era in fin dei conti proprio Moro. Da ciò derivava l’importanza di rendere pubbliche le sue lettere, che costituivano l’unica variabile in grado di smuovere lo Stato e, soprattutto, gli uomini della DC. Paradossalmente era proprio Moro l’unica persona in grado di trovare una soluzione al problema».
Tratto da L’ultima notte di Aldo Moro di Paolo Cucchiarelli
La lettera
Caro Francesco,
mentre t’indirizzo un caro saluto, sono indotto dalle difficili circostanze a svolgere dinanzi a te, avendo presenti le tue responsabilità (che io ovviamente rispetto) alcune lucide e realistiche considerazioni. Prescindo volutamente da ogni aspetto emotivo e mi attengo ai fatti.
Benché non sappia nulla né del modo né di quanto accaduto dopo il mio prelevamento, è fuori discussione — mi è stato detto con tutta chiarezza — che sono considerato un prigioniero politico, sottoposto, come Presidente della D.C., ad un processo diretto ad accertare le mie trentennali responsabilità (processo contenuto in termini politici, ma che diventa sempre più stringente).
In tali circostanze ti scrivo in modo molto riservato, perché tu e gli amici con alla testa il Presidente del Consiglio (informato ovviamente il Presidente della Repubblica) possiate riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori. Pensare dunque sino in fondo, prima che si crei una situazione emotiva e irrazionale. Devo pensare che il grave addebito che mi viene fatto, si rivolge a me in quanto esponente qualificato della D.C. nel suo insieme nella gestione della sua linea politica.
In verità siamo tutti noi del gruppo dirigente che siamo chiamati in causa ed è il nostro operato collettivo che è sotto accusa e di cui devo rispondere.
Nelle circostanze sopra descritte entra in gioco, al di là di ogni considerazione umanitaria che pure non si può ignorare, la ragione di Stato.
Sopratutto questa ragione di Stato nel caso mio significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato, che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni. Inoltre la dottrina per la quale il rapimento non deve recare vantaggi, discutibile già nei casi comuni, dove il danno del rapito è estremamente probabile, non regge in circostanze politiche, dove si provocano danni sicuri e incalcolabili non solo alla persona, ma allo Stato.
Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile. Tutti gli Stati del mondo si sono regolati in modo positivo, salvo Israele e la Germania, ma non per il caso Lorenz. E non si dica che lo Stato perde la faccia, perché non ha saputo o potuto impedire il rapimento di un’alta personalità che significa qualcosa nella vita dello Stato. Ritornando un momento indietro sul comportamento degli Stati, ricorderò gli scambi tra Breznev e Pinochet, i molteplici scambi di spie, l’espulsione dei dissenzienti dal territorio sovietico.
Capisco come un fatto di questo genere, quando si delinea, pesi, ma si deve anche guardare lucidamente al peggio che può venire.
Queste sono le alterne vicende di una guerriglia, che bisogna valutare con freddezza, bloccando l’emotività e riflettendo sui fatti politici.
Penso che un preventivo passo della S. Sede (o anche di altri? di chi?) potrebbe essere utile. Converrà che tenga d’intesa con il Presidente del Consiglio riservatissimi contatti con pochi qualificati capi politici, convincendo gli eventuali riluttanti. Un atteggiamento di ostilità sarebbe un’astrattezza ed un errore.
Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose.
I più affettuosi saluti
Aldo Moro