Moro a Via Fani

Via Fani, perché?

E’ il 16 marzo 1978, 09.02 del mattino. 

A Roma, in via Mario Fani, in pochissimi minuti cambia per sempre la storia del nostro Paese. 

Un commando armato riesce a bloccare le due auto con a bordo il Presidente della Democrazia Cristiana e la sua scorta di cinque uomini – due carabinieri e tre poliziotti: 93 tra colpi di mitragliatrice e di pistola riescono nell’incredibile e tragica impresa di uccidere tutti tranne proprio Aldo Moro, che viene prelevato incolume e portato lontano da lì con altre due auto gia pronte a fuggire via dopo l’eccidio. 

Da quel momento scorreranno lenti e vorticosi al contempo i 55 giorni della prigionia di Moro nella ‘prigione del popolo’ delle Brigate Rosse, i più lunghi e intensi della storia repubblicana: una lunga  agonia che accomuna infine il destino di Aldo Moro a quello della Repubblica italiana.

Ed è questo destino (e la sua comprensione) il motivo per il quale, già da sabato scorso, il partito Vita ha organizzato a Roma la prima di tante altre proiezioni del documentario “Non è un caso, Moro” del regista Tommaso Minniti basato sull’indagine del giornalista Paolo Cucchiarelli: vogliamo interrogarci sui tanti  perchè ancora aperti dell’affaire Moro, e sul perché il nostro Paese sia stato destinato a una lenta quanto inesorabile agonia, fino ad oggi.

Perchè quell’eccidio, quel 16 marzo, con quella tragica teatralità? 

Perchè quei lunghi 55 giorni, con la volontà chiara di non volere Aldo Moro libero? 

Perchè quindi lo si è lasciato morire?

Perchè ancora oggi, dopo 45 anni, la verità  è ancora quella di comodo raccontata dal memoriale Morucci e abbracciata dai brigatisti e dalle sentenze dei tribunali?

Perchè la Commissione Moro 2, che ha concluso i suoi lavori nel 2018, ha secretato alcuni documenti evidentemente importanti, per altri trent’anni?

Perchè tutti  i testimoni, dai protagonisti ai comprimari, fanno capire o dichiarano apertamente di non poter dire tutto (e quindi  ci dicono neanche tanto velatamente, di non dire praticamente nulla)?

La produzione storiografica e letteraria, oltre a quella cinematrografica, riempie ormai interi scaffali, come anche i faldoni prodotti dalle commissioni parlamentari e dai tribunali. 

La verità è sepolta in uno di quei faldoni, in qualche riga non compresa, in qualche documento occultato o coperto da segreto di Stato? 

Oppure è una verità banale, che abbiamo davanti agli occhi e che nessuno vuole vedere?

Il documentario ci aiuta a capire molti aspetti, sebbene rimangano ancora troppe questioni aperte, e dipinge scenari nuovi e sconvolgenti.

Intuiamo subito dopo una verità politica, che proprio le tesi illustrate dal documentario contribuiscono a rafforzare: gran parte dell’èlite politica dell’epoca ha voluto che le cose andassero così.

E da qui nasce la domanda, quasi retorica paradossalmente, più importante di tutte: perché l’Italia è stata abbandonata a questo destino, alla realtà odierna di un Paese coloniale, satrapia di Washington e Londra?

Era certamente un destino già scritto nel dopoguerra: l’Italia aveva perso la guerra e gli occupanti anglo-americani avevano ben salde le loro basi (militari) e chiare le pretese da allora.

Ma forse qualcosa si stava muovendo: nella tragicità degli anni settanta, in quella guerra civile a bassa intensità, c’erano anche forti istanze di autonomia del Paese dalle ingerenze straniere, da Yalta. Nelle piazze molti slogan erano contro la Nato, contro il padrone a stelle e strisce. 

Istanze quindi che provenivano dal basso, da movimenti imponenti, ma anche da alcune sensibilità del ceto politico disposte ad ascoltare e dialogare, anche fra loro, da posizioni prima distanti. 

Aldo Moro ed Enrico Berlinguer potevano forse essere accomunati da questa e altre idee, reali interpreti di forze convergenti?

Non lo sapremo mai; molti dicono che in realtà non ci fu mai nessuna concreta voglia di unire le forze tra DC e PCI, e che tutto fu un gioco di rapporti di forza (fra gli altri, Giorgio Galli e Gianfranco Piazzesi).

Fatto sta che quei 55 giorni furono l’apice (anche se ancora per 2-3 anni la strategia della tensione ebbe varie code, con la tragedia finale della stazione di Bologna nel 1980) di tutta una operazione tesa a silenziare per sempre istanze politiche provenienti dal popolo, dalle piazze e a disinnescare per sempre una politica capace di accoglierle, almeno parzialmente (le parti buone della DC e del PCI, ma anche del Psi e altri).

Gli anni ottanta furono poi tutto un periodo di politica artificiale, di yuppismo legato alla nuova orda neoliberista/globalista di Washington, tesa a rendere il mondo unipolare e quindi pronta a distribuire a destra e a manca mancette ed elargizioni, assieme a moniti ed ordini sempre più stringenti. 

Il 92-93 fu la svolta in questo senso in Italia, con la resa dei conti finale che estromise per sempre dal potere tutta una classe politica, sostituendola di fatto con pure appendici atlantiste, alcune con toni più rossi e altre con toni più blu, fino ai toni giallo-verdi-neri degli ultimi anni.

Ma la tavolozza dei colori ha ormai solo un marchio di fabbrica: made in Usa/UK.

Punto e fine della storia. 

Compreso questo, dobbiamo aver coscienza che nulla è però mai scritto nella pietra riguardo il futuro e che tutto resta ancora in mano a noi: cosa realmente vogliamo per il futuro del nostro Paese, delle nostre vite e delle prossime generazioni? 

Cosa rappresenta per tutti noi, per la comunità italiana, il tema della sovranità del nostro Paese? 

Disse Moro in una delle sue ultime lettere: “La verità è sempre illuminante, ci aiuta ad essere coraggiosi”. 

Dobbiamo sempre ripartire da lì: dalla verità.

Dalla fame di verità.

Quella ci darà coraggio.